Non era quello che volevo?
A periodi alterni, questa domanda aleggia nella mia mente: “Perché NON mi sono accontentata?”
E questo ogni volta che penso al mio futuro remoto (ma che sadica). Tra dieci anni sarò ancora una creator? Sarò in grado di mantenermi? Sarò ancora viva? E così via.
Oppure quando mi assale la consapevolezza di essere l’artefice e la causa di tutto.
L’“uomo che porta i soldi a casa” (ciao patriarcato!) sono io ma anche quella che potrebbe creare la sua stessa fine, visto che mi mantengo da sola su un lavoro che ho inventato.
In fin dei conti avevo tutto.
Quando il tutto era il contratto a tempo indeterminato, aziende solide che mi hanno sempre pagato, la casa in città, un quadro familiare tradizionale e per certi versi auspicabile. Abbastanza per una che nasce in provincia, da genitori artigiani, senza particolari mentori a ispirare la sua carriera.
No, non lo era
Ci sono persone che hanno una visione lucida dei loro obiettivi di carriera. Di solito uomini, ma ho conosciuto anche donne brillanti che hanno questo dono.
Io no.
Ho una mentalità che tende ad affidarsi ai modelli intorno e per anni ha trovato pace nell’accettazione da parte di un altro. Sopporto i disagi finché questi mi garantiscono un vantaggio o meglio un equilibrio, anche fittizio.
Mi adattavo così ai dettami aziendali, ai modelli di donna, credevo negli obiettivi del contesto professionale che mi circondava perché questo mi dava una riconoscibilità e un senso di sicurezza.
Come ben spiegato in quest’articolo di Harvard Business Review Italia :
Decenni di ricerche in psicologia sociale dimostrano che il nostro senso di identità è ancorato a gruppi e organizzazioni ben definiti a cui siamo associati e da cui siamo riconosciuti. Senza la copertura e il sostegno di un datore di lavoro tradizionale e di un'identità lavorativa stabile, possiamo rapidamente iniziare a sentirci persi, ansiosi, irrilevanti e insicuri.
La creatività come risorsa
Quando nel 2019 - 2020, causa maternità, cambio posto di lavoro e poi lockdown, le mie sicurezze precedenti hanno cominciato a vacillare, ho iniziato a diventare insofferente verso le costrizioni che il nuovo contesto lavorativo e familiare mi dava.
Il senso di smarrimento è anche sopravvivenza: ci attiva perché pone l'attenzione sulla creatività e la consapevolezza.
Visto che il mondo attorno mi diceva come dovevo essere o pensare, ho cercato un cunicolo di uscita rappresentato dai social dove potermi esprime come mi veniva con l’idea di fare qualcosa di utile.
Fabianamanager è nata così: uno spazio dove supportare persone con quello che sapevo e per far capire che -sì- ci possono essere più modelli di esistenza rispetto a quelli che ti propongono.
Sono una pessima madre per alcuni, per altri dovrei smetterla di tingere i capelli, per un’altra persona sono sui social solo per mettermi in mostra.
Ma so anche che, chi mi ringrazia per strada, non lo fa con un secondo fine e che, le istituzioni che mi invitano, non lo fanno perché dico cavolate. Dipende tutto dal punto di vista.
Per me, lo faccio per dimostrare e dimostrarmi che non tutti siamo uguali e puoi essere competente anche calcando la mano sui modelli imposti.
“Te l’avevo detto.”
Ci facciamo sempre più domande sulla nostra carriera perché tendenzialmente abbiamo molte più possibilità di scelta e alternative nel percorso.
D’altra parte, la tecnologia ci espone a tanti modelli, non sempre adeguati, che mettono la nostra esistenza in un costante forse.
Allo stesso tempo, se la vita non ci ha insegnato a prendere consapevolezza del nostro valore, viviamo spesso appesi all’approvazione altrui per le nostre scelte.
La paura di sbagliare soggiace su questo timore. Quello che qualcuno un giorno ci dica “Te l’avevo detto.”
Ma ne abbiamo bisogno?
Dobbiamo capire prima di tutto che le scelte fatte erano le migliori al momento e che non siamo chiamati a giustificarci di queste, quanto a raccontare il nostro valore in funzione di questi passaggi: trovare Fil Rouge insomma, non mettere le mani avanti.
Uno stato liminale
Un cambiamento di carriera non è per forza un’epifania, un cambio di azienda oppure una dimissione per diventare libero professionista ma spesso appare come un disagio, un’insofferenza alla quale rispondiamo calcando i limiti dei ruoli che ci appaiono imposti.
Questo può essere un nuovo modo di gestire una procedura, un percorso di formazione, un’attività di volontariato o, come nel mio caso, iniziare con il colorarsi le punte dei capelli di color fucsia (allego foto sotto del 2021. Sì, sono io. Stavo molto bene bionda).
Quando vogliamo cambiare ma non sappiamo dove, la risposta può essere in uno stato liminale (Dal dizionario Treccani agg. [dall’ingl. liminal (der. del lat. limen -mĭnis «soglia»), attrav. il fr. liminal]. – In psicologia e fisiologia, di fatto o fenomeno che è al livello della soglia della coscienza e della percezione (è, per certi aspetti, sinon. di liminare). Ne parlano anche qui su Alley Oop.) ovvero uno spazio di prova, uno standby della nostra identità, nel quale esploriamo varie alternative e possibilità, ricavandone sollievo e, allo stesso tempo, ispirazione per i next steps.
Lo stato liminale ha confini indefiniti ma che dipendono da noi: potrebbe anche non esserci mai una transizione definitiva, almeno finché non troviamo qualcosa che ci dia la serenità di farlo.
L’optimum non esiste ma vero anche che, nella mia esperienza, se non riusciamo a prendere una decisione è perché non abbiamo tutti gli strumenti per farlo.
Rispettiamo i nostri tempi.
Sorpassiamo i nostri limiti quando vediamo un sollievo nel salto.
Non stiamo bene nel posto dove siamo, non perché siamo degli ingrati ma perché funzioniamo così: siamo sensibili ai cambiamenti, ponderiamo costantemente le nostre priorità, scopriamo nuovi interessi, abbiamo ambizioni. Siamo più liberi/e di un tempo ma anche più volte chiamati a chiedere il perché delle nostre vite. ✅
Un bene? Un male? Lascio a te l’ultima parola. Fammi sapere.
In fondo, tra i Link utili ecco qualche suggerimento!
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🔵 Di cambiamenti che non sono illuminazioni ne avevo parlato nel mio Tedx Vasto
🔵 La mia storia di cambiamento, assieme a quella di tante altre, è raccolta nel libro “Piano B: 10 consigli per cambiare lavoro” di Vittorio Martinelli e Luigi Ranieri
🔵 Un podcast sulla cura per le parole che cambiano i comportamenti
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