Immagine generata con Adobe Firefly
Scrivo questa introduzione dopo aver chiuso il telefono, reduce da una discussione con i miei genitori. Ho superato i 40 anni, loro sono sui 70: direi che l’adolescenza l’abbiamo archiviata da un pezzo.
Eppure, ultimamente, gli screzi non mancano.
Loro si stanno chiudendo sempre più nel loro microcosmo in un paesino dell’Umbria, mentre io mi sento come se viaggiassi a mille all’ora. Creo, faccio, vado in giro, lavoro tantissimo. E spesso non capiscono perché non mi sia accontentata di una vita “normale” e abbia scelto la libera professione.
Mi riprendono perché non vivo la maternità come centro assoluto del mio mondo, perché lavoro anche la domenica sera. Io, invece, li biasimo per la loro tendenza a criticare piuttosto che apprezzare i risultati che ho ottenuto.
Sono sempre stati così: mi hanno trasmesso una solida etica del lavoro, ma hanno lodato di rado i miei successi. Era “normale” ottenere quei risultati, dovevo essere una “persona normale” anch’io.
Ora, a quarant’anni, hanno una figlia creator, con i capelli bicolori, che parla in aziende, istituzioni e università e sta per mettere mano al suo secondo libro. Eppure non si interessano a ciò che faccio o a ciò che mi appassiona (“Perché ormai sei grande”), e le nostre conversazioni si riducono al tempo a Milano, alle attività di mio figlio e alla cena.
Questa adultità mi sembra di non raggiungerla mai.
Quella sensazione di pace, soddisfazione, la capacità di guardare indietro e vedere ciò che abbiamo costruito… temo che non sia un lusso concesso ai Millennial e alla Gen Z.
Il pezzo di Federica (di quasi 30 anni), quindi, arriva come un sollievo o come uno spunto di riflessione. Lascio a te la scelta.
Ora li richiamo.
Fabiana
Daniel Goleman direbbe che siamo emotivamente analfabeti.
Seth Godin che siamo un brand in crisi di mercato.
Albert Camus, probabilmente, si accenderebbe una sigaretta, ci guarderebbe con compassione e direbbe: «Vi siete fatti fregare, eh?»
Siamo la generazione che ha preso tutto sul serio.
Ci hanno detto di essere resilienti, e ci siamo spezzati.
Ci hanno detto di essere efficienti, e ci siamo svuotati.
Ci hanno detto che il futuro era nelle nostre mani, ma nessuno ci ha avvisato che era un asset tossico, da vendere prima che crollasse il mercato.
E allora, eccoci qui. Trent’anni, la spia della riserva accesa, un vago senso di colpa e la sensazione che qualcuno, da qualche parte, ci abbia rubato la sceneggiatura.
Ma se fosse ora di riscriverla?
Dimmi di cosa ti vanti e ti dirò cosa ti manca
Abbiamo un problema: non sappiamo più sentire senza doverlo giustificare.
L’intelligenza emotiva? L’abbiamo hackerata.
Ora il dolore dev’essere utile.
La frustrazione dev’essere gestita in modo strategico. L’incertezza dev’essere convertita in opportunità di crescita.
Ma se la sofferenza fosse solo sofferenza?
Se la stanchezza fosse solo stanchezza?
Se, invece di “trasformare il negativo in positivo”, accettassimo che la vita è fatta anche di stati emotivi non ottimizzabili?
Goleman, con la sua pazienza zen, ci direbbe che la vera maturità emotiva non sta nel controllare tutto, ma nell’abbandonare l’idea di doverlo fare.
Perché il paradosso è questo: più cerchiamo di “essere migliori”, più ci disumanizziamo.
E allora: smettiamola di voler essere lucidi, equilibrati, centrati.
Cominciamo a sentire, anche quando fa male.
Il marketing del fallimento
Il problema, direbbe Godin, è che ci comportiamo come aziende in difficoltà.
Abbiamo fatto branding su noi stessi e ora non sappiamo più chi siamo senza un pubblico.
Pensaci. Sei una startup umana: hai una value proposition (i tuoi talenti), hai una target audience (chi vuoi impressionare), hai KPI personali (successo, relazioni, crescita).
Ti sei posizionato sul mercato dell’esistenza con l’idea di fare “scalabilità emotiva”.
E ora? Ora hai paura di non essere più rilevante. Di non avere un vantaggio competitivo. Di diventare un prodotto fuori mercato.
Ma ecco la verità che nessuno vuole sentirsi dire: non siamo prodotti. Non siamo asset. Non siamo investimenti a lungo termine.
E se il vero atto di libertà fosse smettere di ottimizzare la nostra esistenza e iniziare semplicemente a viverla?
Se non fossimo convinti di essere content creators della nostra stessa vita, cosa rimarrebbe?
Irrilevanti e smitizzati, umani e niente fiabe.
L’arte di archiviare con eleganza
E poi c’è Camus, che ci guarda con il suo sorriso da intellettuale disilluso, e ci dice: «Ma davvero pensavate che la vita avesse un senso?»
Il problema non è che siamo ansiosi. Il problema è che non accettiamo il fatto che la vita sia assurda e che nessuno verrà a salvarci. Sisifo, almeno, aveva capito il gioco.
Noi invece ci ostiniamo a cercare un senso in un sistema che non ne ha.
Vogliamo una storia con una morale, un happy ending, una struttura narrativa solida.
Ma la verità? Non c’è nessuna narrazione. Non c’è nessun premio finale.
Smettiamola di aspettare che la vita diventi quella cosa che ci era stata promessa. Accettiamo il caos. Facciamo amicizia con il vuoto. Guardare il masso, guardare la montagna, e poi – invece di spingerlo – sedersi e godersi il panorama.
Perché il problema della nostra generazione non è che è in crisi.
È che si ostina a pensare che la crisi sia un’eccezione, quando invece è l’unica cosa reale.
Il momento in cui smetti di cercare permessi (e commozione)
E allora eccoci qui.
Trent’anni, e la consapevolezza che non ci sarà mai un momento in cui ci sentiremo “adulti” nel senso in cui ce lo avevano promesso.
E forse va bene così.
Forse il punto non è smettere di sentirsi persi.
Forse il punto è smettere di sentirsi in colpa per esserlo.
Perché l’ovazione non arriva quando vinci.
Arriva quando smetti di cercare di farlo.
Quando finalmente ti concedi il lusso di essere solo ciò che sei, senza più doverlo spiegare a nessuno.
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